La logistica low cost come minaccia al Made in Italy
La logistica low cost è una condanna a morte per il Made in Italy. Una filiera produttiva che corre al massimo ribasso diventa fragile, incapace di garantire continuità, valore e competitività. In questo modo i nostri prodotti di eccellenza finiscono per viaggiare in catene logistiche deboli, perdendo peso sui mercati e lasciando che siano altri – spesso con interessi opposti ai nostri – a controllare il contatto con i canali commerciali. Se non spezziamo questa spirale, il rischio non è solo economico: è politico, sociale, culturale. Perché senza una logistica di qualità, il Made in Italy non ha futuro. E senza Made in Italy, non ha futuro l’Italia.
In questo pigro e per certi versi controverso mese di agosto in cui anche l’atteso vertice in Alaska produce un topolino, un mio articolo cortesemente pubblicato su Uomini e Trasporti ha avuto l’effetto di accendere un dibattito interessante fra alcuni dei principali stakeholder del settore. La mia provocazione parte da un presupposto fondamentale: la qualità dell’offerta logistica dipende dalla qualità della domanda. In altre parole, non è possibile per gli imprenditori della logistica attivare un’offerta innovativa, sicura e sostenibile se la committenza – pubblica e privata – non è disposta a riconoscerne il valore. E non ha neppure senso dire che gli imprenditori debbono essere in grado di farsi pagare la tariffa giusta se l’alternativa è fermare i camion e lasciare che altri loro “colleghi” senza scrupoli e con scarso spirito etico vadano a soddisfare quella domanda fondata sulla ricerca del “low cost della logistica”. La ricerca del massimo ribasso produce nel breve periodo un apparente risparmio, ma nel lungo termine indebolisce l’intero sistema: riduce sicurezza, investimenti e innovazione, relegando ai margini le imprese oneste. Dietro l’eccellenza del Made in Italy si nasconde un rischio crescente: lo stesso meccanismo che oggi mina la credibilità della moda, travolta dalle inchieste sul ricorso a subfornitori che producono a costi fuori mercato, senza rispettare regole e diritti, sta contaminando anche la logistica. La corsa al low cost nei servizi di trasporto e distribuzione sta trasformando la logistica in un mero costo da comprimere, anziché in un fattore strategico di competitività. Ma una filiera che non investe in qualità, innovazione, sostenibilità e sicurezza non può sostenere il valore del Made in Italy: lo impoverisce, lo rende fragile e lo espone alle stesse accuse di opacità e sfruttamento che oggi scuotono la manifattura dei grandi marchi. C’è però un ulteriore rischio, ancora più strategico. Se continuiamo a vendere franco fabbrica — consegnando le merci al primo intermediario — lasciamo ad altri il controllo del trasporto fino al cliente finale. In questo modo, il contatto diretto con il canale commerciale e di vendita non resta nelle mani delle nostre imprese, ma passa a soggetti terzi che possono avere interessi diversi rispetto alla promozione del Made in Italy. Solo un approccio franco destino, dove il produttore italiano governa la consegna fino al cliente estero, garantisce presidio commerciale e valorizzazione del brand. Se i caricatori e i committenti non cambieranno approccio, alimentando servizi ad alto valore il nostro sistema produttivo rischia di veder svanire ciò che lo rende unico: la capacità di coniugare bellezza, qualità e affidabilità. La logistica low cost non è un’opportunità: è il tallone d’Achille che può condannare il Made in Italy.
Il ruolo decisivo della committenza e della domanda di qualità
Da qui il mio appello a una filiera basata su legalità, trasparenza e qualità, a un ripensamento degli incentivi pubblici che oggi non distinguono tra chi lavora bene e chi no, e a una maggiore capacità associativa per superare frammentazione e dipendenze. La sfida non è più solo economica, ma culturale e strategica: decidere se sostenere un modello competitivo e sostenibile o rassegnarsi alla marginalizzazione.
Questo articolo ha poi stimolato una serie di interventi che riassumo di seguito – scusandomi fin d’ora con gli autori per l’eventuale eccessiva esemplificazione dei concetti a scapito della sintesi – accompagnati da un mio commento sintetico che non ha la pretesa di essere esaustivo, ma intende solo fornire un ulteriore contributo utile ad alimentare quel confronto che auspico possa presto trovare un contesto più ampio e capace di mettere in dialogo i protagonisti del settore con chi acquista servizi low cost.
Natalino Mori (Transadriatico) condivide le critiche alla frammentazione associativa e alla mancanza di legalità, ma ricorda che esistono già sedi istituzionali come l’Albo degli Autotrasportatori dove queste istanze possono trovare sintesi. Propone di valorizzare strumenti esistenti (Codice di Pratica, criteri ESG) e sottolinea la responsabilità della GDO e della committenza, troppo spesso escluse dalle indagini sugli incidenti. Esprime scetticismo sugli incentivi a pioggia, distinguendoli dai rimborsi accise.
Condivido in linea generale l’idea che le istituzioni esistano e vadano rafforzate, in particolare l’Albo che vedo in questo periodo parecchio latitante sui temi di fondamentale interesse per il settore – con tutto l’affetto e la stima che nutro per il suo Presidente – ma nessuna sede formale produrrà cambiamento senza affrontare il nodo della domanda. Se la committenza continuerà a scegliere solo servizi low cost, anche le migliori intenzioni e le più sfidanti certificazioni rischiano di restare strumenti formali. Il vero salto di qualità sarà possibile solo se committenza, associazioni e operatori condivideranno responsabilità e regole, traducendo i principi in comportamenti concreti. Senza questo equilibrio, le imprese sane continueranno a restare ai margini.
Alessandro Peron (FIAP) invita a uscire dalla “trappola della lamentela cronica” e richiama gli imprenditori a responsabilizzarsi: sono loro a scegliere se accettare condizioni al ribasso o investire in qualità. Porta come esempio l’Osservatorio TCR, sviluppato anche con te, per introdurre criteri di affidabilità oltre al prezzo.
Concordo con l’invito all’azione concreta, ma ribadisco che l’imprenditore da solo non può invertire dinamiche di mercato viziate dalla domanda. Senza una committenza che riconosca valore a qualità e legalità, anche gli imprenditori virtuosi rischiano di essere esclusi dalle dinamiche di scelta dei servizi con il solo parametro del low cost. La provocazione sugli “imprenditori veri” è utile, ma non basta: serve una visione di filiera. Non eroi isolati, ma un sistema dove responsabilità e regole siano condivise tra chi produce, chi trasporta e chi acquista.
Claudio Donati (Assotir) denuncia la concentrazione dei contratti nelle mani di pochi grandi player senza mezzi propri, che subappaltano oltre il 90% del fatturato. Propone di introdurre anche in Italia il principio di “proporzionalità” tra veicoli/addetti e fatturato per limitare la subvezione, seguendo il modello francese. Denuncia inoltre conflitti di interesse nelle rappresentanze.
Anche in questo caso mi sento di concordare sul fatto che la sproporzione tra chi detiene i contratti e chi effettivamente trasporta è una delle principali cause della crisi del settore. Il principio di proporzionalità sarebbe un passo avanti, ma non risolverebbe il problema di fondo: se la domanda continua a privilegiare solo il servizio low cost, la subvezione troverà sempre nuovi canali. Il tema della rappresentanza è cruciale, ma ancora più decisivo è il comportamento della committenza: se le grandi aziende continueranno a cercare meri esecutori, i trasportatori resteranno subfornitori senza autonomia.
Pietro Spirito (Universitas Mercatorum) legge la crisi della logistica in chiave sistemica: ritardi, squilibri contrattuali e mancanza di regolazione costano all’Italia miliardi di export. Indica come priorità una politica industriale per la logistica, con regolazione contrattuale, osservatori, un’Autorità nazionale (l’ennesima?), sostegno all’intermodalità e alla formazione, per rendere il settore più competitivo e sostenibile.
Condivido in pieno la necessità di una politica industriale: la logistica è parte integrante della competitività del Paese. Ma senza riequilibrare i rapporti domanda–offerta nessuna riforma sarà efficace. Una domanda che continua a imporre condizioni insostenibili annullerà qualsiasi strumento di regolazione. La logistica non è un costo da comprimere, una semplice commodity: è invece un asset strategico straordinario per chi ne comprende a fondo le potenzialità. La competitività del Made in Italy si gioca anche nella capacità di distribuire eccellenze con filiere sicure, tracciabili e trasparenti.
Umberto Ruggerone (Assologistica) richiama la necessità di norme moderne e adeguate al settore, iniziative già avviate da Assologistica (Codice Civile, legge sui pallet, reverse charge, Cruscotto). Sottolinea il dialogo con la committenza per far percepire la logistica come driver di competitività e non come costo. Evidenzia l’urgenza di formazione manageriale, coesione associativa e certificazioni che premino la regolarità.
È indubbio e totalmente condivisibile aggiornare le norme, ma la vera svolta sarà quando la committenza accetterà di riconoscere valore alla logistica come parte della strategia industriale. Dialogare con Confindustria e Federdistribuzione è importante, ma servono impegni concreti sulla domanda che al momento ancora non si sono visti. Formazione e coesione associativa sono leve fondamentali: senza capitale umano qualificato e senza un fronte unitario, il settore resterà debole. Ma la condizione necessaria resta la stessa: domanda responsabile che orienti un’offerta sostenibile e non la ricerca ossessiva di servizi low cost.
L’ultimo in ordine di tempo intervento sul tema è di Donatella Rampinelli (manager e formatrice) che sottolinea le peculiarità italiane (frammentazione, geografia complessa, uso prevalente di ex works) che hanno favorito intermediazione e tender al ribasso. Indica la collaborazione e la logistica condivisa come unica strada per ridurre i costi e creare valore, ma denuncia la mancanza di fiducia reciproca. Centrale è la formazione: esperienze positive negli ITS e master, ma i giovani formati spesso non vengono trattenuti dalle imprese. Conclude invitando a puntare su competenze e qualità, senza commiserazione.
Sul tema della collaborazione mi trova assolutamente allineato: sono anni che ribadiamo la necessità di creare ecosistemi virtuosi come la soluzione per superare frammentazione e sfiducia. Resto convinto che senza logistica collaborativa non avremo mai economie di scala né competitività. Ma questa collaborazione deve includere anche dalla committenza, che oggi alimenta gare al ribasso per acquistare servizi low cost invece di costruire relazioni di lungo termine. La formazione è un investimento che non possiamo più permetterci di sprecare. Se il settore non assume e valorizza i giovani che prepariamo, significa che manca una domanda capace di riconoscere il valore delle competenze. E senza capitale umano qualificato, la logistica italiana resterà in trappola.
Verso un modello competitivo fondato su legalità, collaborazione e competenze
Il dibattito che si è aperto in queste settimane ha avuto il merito di portare alla luce nodi strutturali che da tempo pesano sulla logistica italiana. Non solo la corsa al ribasso nei prezzi, ma anche la mancanza di dialogo vero tra committenza e operatori, la frammentazione associativa e la scarsa propensione agli investimenti in competenze e innovazione. È emerso chiaramente che non bastano soluzioni semplici o norme calate dall’alto: serve un cambio culturale che parta dai committenti e coinvolga gli operatori più strutturati, anche quelli che acquistano a loro volta servizi in subvezione. La speranza è che questo confronto non si esaurisca tra addetti ai lavori, ma diventi un’occasione di crescita condivisa con caricatori, distributori e tutti coloro che, scegliendo un modello di logistica sostenibile e di qualità, possono garantire futuro e competitività al Made in Italy sui mercati globali.
No alla logistica low cost: se la logistica è low cost, anche il futuro del Paese lo diventa.




